Questa è la storia di Chiara Invernizzi, nata a Valenza ( AL) e , ripudiata dal marito, è trattenuta in Arabia contro la sua volontà :
Vivo a Jeddah, in Arabia Saudita, da cinque anni e tre anni fa ho sposato Walid Ahmed Naghi, rampollo di una nota famiglia della città e vice-presidente della Al Naghi Brothers, un’azienda che distribuisce prodotti di largo consumo e prodotti farmaceutici. Il mio non è stato un matrimonio felice, perche’ non sono mai riuscita a convincere mio marito ad incontrarmi a metà strada, a tralasciare le sue durezze e cattive maniere che distruggono ogni amore, anche il più grande. Non mi sono mai sentita a casa mia, in quella grande casa, dove non potevo neanche disporre i mobili secondo mio gusto, e dove non si poteva cambiare nulla se non con la sua autorizzazione.Il mio ex-marito ha tre figli che vivono con lui, da un precedente matrimonio, ed io mi sono dedicata con tutta la mia passione a crescerli e ad amarli come se fossero figli miei, per tutta risposta, alla minima incomprensione, la sua prima reazione era di impedirmi di parlare con loro o di prendermene cura, creando un forte senso d’insicurezza in tutta la casa. Più di una volta mi sono lamentata di questo atteggiamento e come risposta mi e’ sempre stato detto che quando una moglie sbaglia va punita!!! Ecco, il punto fondamentale del fallimento del nostro matrimonio si racchiude in questa frase, che determina una superiorità del marito sulla moglie. Io non sono mai stata considerata alla pari, ma un gradino più in basso, poco più di una delle sue figlie, ma io sono stata una figlia, sono stata punita, aiutata, sgridata, amata e sostenuta, ritengo impensabile che, a 40 anni, ricominci la mia vita di figlia e non quella di moglie. Vero è che quando ci siamo conosciuti e quando veniva a trovarmi in Europa si comportava in modo molto diverso, altrimenti non avrei mai acconsentito a sposarlo e non avrei mai messo la mia vita nelle sue mani.
A Ottobre dell’anno scorso mi ha ripudiato secondo la tradizione islamica e mi ha invitato a lasciare la sua casa e a tornare dai miei genitori, cosa che ho fatto con estrema gioia. Da allora vivo in un compound con loro. A metà Marzo dovevo rientrare in Italia con mio padre per risolvere delle questioni relative ad una società immobiliare di cui siamo proprietari, avevamo fissato appuntamenti con il nostro avvocato e con un notaio, quindi, come al solito abbiamo dato i nostri passaporti al mio ex-marito perche’ ci fornisse il visto d’uscita, necessario per lasciare il paese, qualora non lo sapesse, in Arabia Saudita vige un sistema di sponsorship per il soggiorno degli stranieri, cioè ognuno di noi dipende da uno sponsor, che può essere solo saudita, e che ha il diritto di impedire di lasciare il paese alle persone sotto di lui.
Mio padre, che all’epoca era in ottimi rapporti con il mio ex-marito, ha portato i nostri passaporti a casa sua per ottenere questo visto d’uscita, siccome passavano i giorni e i passaporti non ci venivano restituiti ne’ tanto meno Walid rispondeva alle nostre telefonate, i miei genitori hanno deciso di andare di persona a casa sua per vedere perche’ la restituzione dei passaporti tardava e sono stati scherniti e maltrattati, cosa impensabile considerando la loro età e il fatto che loro hanno sempre spinto per una riappacificazione tra di noi.
Abbiamo quindi chiesto l’intervento del Console generale di Gedda, il Dott. Simone Petroni, il quale ha cercato in tutti i modi di addivenire ad una soluzione diplomatica del problema, diventando anche psicologo matrimoniale ed entrando a conoscenza dei particolari più intimi della nostra relazione, cosa che mi infastidito parecchio, ma pare qui usi cosi. In ogni caso, eravamo giunti ad un accordo per la restituzione dei passaporti dei miei genitori insieme al visto d’uscita per entrambi.Tutto pur di uscire da questo incubo! L’indomani mattina mi sono recata a casa del mio ex-marito, su sua richiesta e, invece di avere i documenti dei miei genitori, mi e’ stato detto che aveva cambiato idea e che non avrebbe lasciato partire i miei.
Mia madre è una donna di 77 anni e ha una storia clinica di fibrillazione cardiaca e mio padre ha 72 anni e gode di buona salute, ma questa situazione di stress e ha acuito alcuni problemi minori. Il Console stesso mi ha detto che Walid era molto sensibile alla mia persona, quindi per cercare di facilitare la situazione mi aveva consigliato di accettare un invito a cena.
Il 7 Aprile, Walid è venuto a prendermi al compound, ma, invece di andare a cena, siccome avevo una brutta ulcera sulla gamba sinistra che si era rivelata essere leishmaniosi, mi ha portato all’ospedale, dove io ero stata curata tramite un amico di mio padre, anche perche’ io non ero neanche in possesso del mio permesso di soggiorno e quindi non potevo essere accettata presso nessuna struttura ospedaliera.Arrivati all’ospedale, io ho detto a Walid che quel dottore mi aveva già curato e che non aveva sortito grandi risultati, il dottore, da parte sua, ha detto a Walid che io ero già stata nella sua clinica altre volte, tre volte con mio padre e una volta con un fantomatico uomo americano, cosa assolutamente non vera, perche’ mio padre e’ sempre stato molto protettivo nei miei confronti e in un paese, dove io non posso guidare, mi accompagna personalmente ovunque. In ogni caso, questa nuova informazione ha scatenato l’ira di Walid che invece di riportarmi a casa dai miei, mi ha portato a casa sua e una volta nel giardino di casa ha iniziato a picchiarmi, tirarmi per i capelli e quindi mi ha stretto al collo il velo che le donne devono portare in testa e trascinandomi come un cane mi ha portato dentro casa. Abbiamo lottato per un tempo che a me e’ sembrato infinito, io ero in ginocchio sempre tenuta per i capelli e strattonata dappertutto, mi e’ salito sul petto con entrambe le ginocchia e mi ha preso a sberle fino a farmi venire un occhio nero e sempre stringendomi al collo quel maledetto velo. Ha minacciato di raparmi a zero e poi di chiudermi in una stanza nel semi-interrato dove sono stata trascinata per i capelli per quattro rampe di scale. A quel punto, Walid era stanco ed io ne ho approfittato per chiamare mio padre e dirgli di venirmi a prendere immediatamente, la casa del mio ex-marito e il compound sono praticamente attaccati, mio padre ha immediatamente chiamato il Vice-Console e lo ha informato di quello che stava accadendo. Il Dott. Nocera ha consigliato di portarmi a casa di una mia amica e cosi sono arrivata a casa della mia amica Zina che mi accolto, abbracciato, consolato e, soprattutto, ha fotografato i lividi sul mio corpo.
Il giorno dopo, sono andata da un dottore privato che mi ha chiesto come mi ero fatta quei lividi, quando gli ho detto che il mio ex-marito aveva tentato di strangolarmi, mi ha consigliato di andare in un ospedale pubblico e di riportare l’accaduto anche alla polizia. E’ iniziata cosi la mia odissea nella burocrazia saudita, forse paragonabile alla nostra, e dopo giorni di vari tentativi sono riuscita ad arrivare alla stazione di polizia della mia zona e a riportare gli avvenimenti.
In seguito all’aggressione ho sempre forti dolori cervicali, una lesione alla retina dell’occhio sinistro e sono in cura presso uno psichiatra locale per limitare lo stato d’ansia e gli attacchi di panico che ho da allora.
Sempre il Vice-Console mi ha consigliato e trovato un avvocato che potesse assistermi e rappresentarmi in tribunale, cosa che non si è rivelata facile, dal momento che io non ero in possesso di alcun documento identificativo valido e riconosciuto nel paese, abbiamo tentato con un’autocertificazione emessa dal Consolato e timbrata e vidimata dallo stesso Console, ma niente da fare, erano necessari copia del mio passaporto e del permesso di soggiorno, il mio avvocato, una persona estremamente umana dopo qualche settimana di stallo e’ riuscito a risolvere il problema e a superare l’ostacolo, ora aveva la delega per rappresentarmi in tribunale e la causa per l’aggressione poteva finalmente prendere corso.
Dopo essere stato chiamato un numero non ben definito di volte dalla stazione di polizia, per andare a dare la sua versione dei fatti, il mio ex-marito si è finalmente presentato e, al capitano che lo intervistava, ha chiesto il perche’ di tanto interesse nella mia storia, forse perche’ ero italiana, o una donna o per via dei miei occhioni azzurri! La sua arroganza, la certezza di poter fare tutto ciò che vuole perche’ nel suo paese, hanno scoraggiato me e infiammato lo spirito del mio avvocato.
Lentamente, ma inesorabilmente, la pratica relativa all’aggressione viene mandata al Bureau of Investigation, ossia il Pubblico Ministero, dal quale vengo convocata un mercoledì mattina di fine Maggio alle 10.
Quel mercoledì è stata la giornata più torrida di tutto l’anno, c’era una tempesta di sabbia che veniva dal deserto, e la temperatura esterna era di 50 gradi, la sensazione quando si respirava era di non inspirare ossigeno, ma fuoco.
Arriviamo la Bureau of Investigation, l’assistente del mio avvocato, mio padre, mio tutore maschile perche’ qui in Arabia saudita una donna non può fare nulla senza la presenza di un tutore maschio della famiglia, questo tutore può essere solo il padre, uno zio, un fratello o il marito, insomma un uomo con il quale la donna non possa avere una relazione promiscua, ed io. Entriamo nel cuore della burocrazia saudita, un tribunale, io seguo come una pecorella smarrita, i miei uomini ed entro con loro nell’ufficio, a quel punto sento una voce urlare alle mie spalle: “Donna! Dove vai?” Mi volto un po’ sorpresa e molto spaventata e mi trovo davanti un poliziotto che urlando e agitando le braccia mi indica una porticina vicino all’ingresso dove secondo lui io dovrei andare. Guardo il mio avvocato e lui annuisce e mi spiega che per via della segregazione dei sessi, io non posso stare ad aspettare con loro, ma devo andare nella sala d’aspetto femminile. Un po’ riluttante, faccio come mi viene detto, apro la porticina e mi trovo in un corridoio con tre stanze con le pareti di vetro, nella seconda due giudici stavano interrogando una povera donna eritrea o somala, ossia i due uomini urlavano e la poveretta bisbigliava qualche parola qua e la’, non so perche’ mi sono subito alla mente gli interrogatori dell’Inquisizione! Tra me e me ho pensato, andiamo bene, molto bene, ma io non farò certo intimidire da un giudice di questi, ci vuole ben altro! mi sono seduta su una sedia in attesa di sapere dove dovevo andare e cosa dovevo fare, cercando di concentrarmi su un bel campo fiorito di montagna, il profumo dell’erba e dei fiori, un cielo con nuvole che si muovono veloci. A quel punto arriva una donna che indossa il niqab, il velo integrale che lascia fuori solo gli occhi e mi dice: “Sorella, vieni con me.” La seguo per un corridoio che sembra più un budello, lurido e sozzo ed entro nella sala d’attesa femminile, una stanza di due metri per tre, con due file di panchine sulle quali sostano un numero indefinito di ombre nere, tutte coperte da capo a piedi che mi guardano come se fossi una marziana e fossi verde con le antenne, ciliegina sulla torta, le signore emettono qualunque tipo di rumore, digestivo e non, lascio all’immaginazione la freschezza dell’aria nella stanza.Decido, per intrattenermi, di giocare a briscola sul mio iPhone, strumento che viene guardato come se fosse il demonio stesso.Finalmente, squilla il telefono, la nostra cerbera, che sembra una suora dell’ordine delle Mantellate, mi chiama e per un altro lordissimo corridoio mi conduce alla stanza dove sarò ascoltata dal pubblico ministero e dove finalmente rivedrò mio papa’ e l’avvocato.
Insieme a noi, ci sono il Pubblico Ministero, il suo assistente, che scrive tutto quello che viene detto e un interprete del Tribunale, un pakistano che non parla bene ne’ l’arabo ne’ tantomeno l’inglese, quindi, quando io non capisco quello che dice, per via del suo accento, ripete alzando il volume della voce, come se io fossi sorda, la mia pazienza e’ quasi al limite, ma devo mantenere la calma. Passano cosi tre ore e arriviamo alla conclusione di questo interrogatorio, finalmente possiamo andare a casa, a farci una doccia e a levarci di dosso un po’ di polvere.
Dopo qualche settimana, all’inizio di Giugno, il mio avvocato mi chiama per dirmi che è stato contattato da una persona che lavora per il mio ex-marito per arrivare ad un accordo che eviti il tribunale a tutti, i tempi della giustizia, anche qui, sono piuttosto lunghi e noi abbiamo solo voglia di tornare a casa. Mi dico d’accordo a trattare e dopo quasi un mese, arriviamo alla stesura di una carta nella quale io m’impegno a non procedere contro di lui, ne’qui ne’ in Europa, in cambio dei visti d’uscita per mio padre e per me. L’accordo viene discusso alla stazione di polizia, alla presenza di un capitano come testimone, tutto e’ pronto, mancano solo le firme e Walid ritarda a dare il permesso al suo avvocato per firmare in vece sua, ed io ricevo pressioni da parte del mio avvocato per fare una ultima telefonata, come richiede il mio ex- marito.Acconsento, anche questa volta, solo perche’ voglio partire, voglio portare mio padre a casa, questa situazione gli ha logorato i nervi, vive in un costante stato di ansia e ha bisogno di fare i suoi controlli ciclici, esami del sangue e visite specialistiche. Chiamo Walid, inizialmente è molto sostenuto, poi inizia a dirmi che lui mi ama ancora, che i bambini vogliono che torni a casa. Gioca le sue carte migliori per far breccia, ma se c’e’ una cosa che ho imparato da questa storia è che se non mi aiuto io, non mi aiuta nessuno. Non cedo, gli ricordo che mi ha aggredito, quasi strangolato e lui, per tutta risposta, invece di chiedermi scusa, dice che non è vero e che mi sono inventata tutto. Evidentemente ha qualche problema con la percezione della realtà, quindi, la mia è stata ed è una battaglia persa in partenza, rimane la necessità di uscire da questo paese e tornare a casa, dimenticare tutto e ricominciare una nuova vita. Spero che la pubblicazione della mia storia serva a smuovere i livelli alti della diplomazia internazionale, perche’ dopo cinque mesi di trattative e false speranze, inizio anch’io a vacillare.
Il mio avvocato è ottimista, dice che non mi devo preoccupare, ma come faccio a confidare nel fatto che la giustizia trionferà se non succede quasi mai? Io ho fiducia nella persona del re che è un uomo illuminato e giusto e spero che quando sarà a conoscenza della mia storia, si renda conto che questo potere che hanno i suoi sudditi non sempre viene amministrato nel modo corretto, e nelle mani di uno squilibrato come il mio ex-marito può portare al sequestro di due cittadini europei, perche’ questa e’ la condizione di mio padre e mia. Nella nostra stessa situazione ci sono migliaia di lavoratori, provenienti da zone povere e sfruttate del mondo, e che non hanno la capacità che ho io di far arrivare la loro voce fuori dai confini del paese.
Chiara Invernizzi
Chiara é tornata in Italia.