Mio marito Damon è afroamericano; ci siamo conosciuti a New York e da due anni viviamo a Milano: lui la chiama casa, senza un filo di ironia. Ci tiene a precisare di essersi innamorato di me innanzitutto come persona; che i sentimenti che prova non c’entrano col colore della mia pelle bensì col modo in cui l’ho guardato quando ci hanno presentati. Troppo spesso e superficialmente si liquidano le relazioni interraziali con una questione di tabù stravolti, anziché vederle per quello che sono davvero: l’incontro di due individui che trovano ragione di trascorrere una quantità idenfinita di tempo insieme. Mi chiedono se ci sentiamo discriminati. La risposta è sì, a volte. Damon dice: “Chi ha tempo per recriminare? Andiamo avanti per la nostra strada”. Ma a me piace spiegare. Per una coppia mista il quotidiano comporta l’esposizione a una reazione in due tempi, diretta innanzitutto alla persona che rappresenta la minoranza etnica, poi alla coppia in toto. Nel nostro caso la minoranza è maschio e questo può costituire un’aggravante: nella prospettiva di chi ha pregiudizi una donna nera è diversa, persino una donna-oggetto; lo stesso vale per l’uomo di colore, ma in più lo si ritiene minaccioso, eccessivamente dominante. Chi ci vede per strada non pensa quasi mai che stiamo insieme, piuttosto che si tratta di un africano che tallona un’italiana; il loro sguardo cambia non appena ci prendiamo per mano. Il significato di quello sguardo – curiosità, divertimento, disapprovazione, ammirazione (rara) – è diverso a seconda della controparte (i bambini sono meravigliosamente imperturbabili) e del contesto. Negli Stati Uniti, dove gli afroamericani hanno combattuto per i diritti civili e dove oggi sono il motore di un enorme potere socioculturale ed economico (sebbene non ancora immuni da pregiudizio), una coppia mista è generalmente più accettata. Ma laggiù c’è anche chi pensa che un black che sceglie una white lo faccia per ribadire uno status, o come forma di revanche. In Italia l’esperienza con i neri è quasi esclusivamente legata al flusso in arrivo dall’Africa e ha raggiunto una portata massiccia da pochi anni; gli africani sono ancora poco integrati a livello socioeconomico e manca il pensiero critico di individui carismatici (predicatori, attivisti, politici) che abbiano la pelle scura e siano noti al grande pubblico. Questo significa più sguardi per Damon e me. Significa anche che chi è razzista qui lo è sulla base di una forma primitiva di paura e di un deficit di interazione ed educazione. E anche che, in qualità di americano, mio marito è un nero di classe A, cool – e lo dico con un misto di sollievo e rammarico. Quando ha aperto il suo conto in banca gli è stato chiesto se la sua posizione fosse politicamente scomoda. Il direttore della filiale ha scherzato: “Se lei fosse un cugino di Obama non sarebbe un problema…”. Noi conviviamo con tutto questo e ci consideriamo fortunati. Avere l’un l’altro ci ha insegnato che esiste un denominatore comune che ci attraversa tutti e che dovremo cominciare ad apprezzare di più se vogliamo crescere come collettività.
Laura Lazzaroni e Damon M. Pittman