Sempre più numerosi i divorzi in Italia. Da un’indagine dell’Istat risulta che, nel decennio 1996-2006, sono aumentati del 74%. Dato sconfortante che non trova consolazione nell’appurare che siamo i penultimi nella classifica europea. Inoltre, nello stesso arco di tempo i matrimoni, religiosi o civili, sono diminuiti, mentre è quasi raddoppiato il numero delle coppie di fatto (a quanto pare, più di 500mila) e dei loro figli, circa 80mila l’anno. Contemporaneamente, soprattutto nel Nord, sono triplicate le unioni “miste” formate, nel 22% dei casi, da un’Italiana sposata ad un Africano (Marocchino, Algerino, Senegalese). Matrimoni che crescono al ritmo di 6.000 all’anno ma che non durano: 3 su 4 si sfaldano, con il divorzio o la separazione, a volte anche con l’assassinio della donna, se il marito è di religione musulmana.
Un amore, il loro, che in genere sboccia in fretta, che procrea abbondantemente ma che non regge, a causa delle profonde differenze negli stili di vita e nella visione della famiglia. A rilevarlo è l’Ami, l’Associazione matrimonialisti italiani, il cui presidente, Gian Ettore Gassani, ne spiega i motivi: “Le Italiane trovano nei mariti africani uomini gelosi, abitudini religiose che il coniuge vuole condividere, a volte imporre; o semplicemente si trovano di fronte alla richiesta di adottare costumi e regole troppo restrittivi”. In caso di rifiuto, scattano “la segregazione in casa e botte da orbi” – è sempre Gassani a parlare.
Scontato che la rottura del legame familiare crei, tra l’altro, il problema “figli”, in gran parte minorenni: nel 2006 quelli coinvolti nella crisi coniugale dei propri genitori sono stati 46.580, ai quali vanno aggiunti i 98.098 nati da coppie di fatto. Né sfuggono a tale dramma i bimbi delle coppie miste, anzi, sono proprio questi a soffrirne di più. Lo conferma l’Istat che individua proprio nelle divergenze su come educare i figli la causa principale del fallimento del matrimonio. Anche perché, come ricorda la sociologa Tognetti, “nel Nord Africa, i figli sono sotto la potestà esclusiva del padre”. Che spesso li rapiscono.
Una unione, quella mista, che qualcuno apprezza in nome del multiculturalismo, inteso come scambio di storie e tradizioni. Ma che, piuttosto, crea un muro di incomprensioni, di disagi, a volte di violenza, proprio perché le abitudini sono diverse; perché i differenti idiomi possono limitare la reciproca comprensione; e perché la religione, quella islamica in particolare, condiziona profondamente lo stile di vita e la mentalità di chi la professa. Senza contare che, in molti casi, a spingere lo straniero al matrimonio, più che l’amore, è l’interesse a prendere la cittadinanza italiana. Il 45% delle quali, infatti, fra il 1996 e il 2004, è stata concessa per motivi coniugali (Dati Istat).
Il che non sarebbe un male, se ciò significasse una reale integrazione nella società nazionale, con il dovuto rispetto delle sue regole. Purtroppo spesso non è così: trascorso il periodo necessario all’acquisizione del passaporto, la coppia si spacca; se il coniuge è musulmano, rammentandosi (?!) di avere un’altra sposa nel proprio Paese, reclama il riconoscimento di fatto della poligamia, come conferma Souad Sbai, presidente di Acmid (Associazione donne marocchine) e deputata del Pdl: “Ci siamo trovati di fronte a casi di uomini stranieri che sposano un’italiana, ottengono la cittadinanza e poi chiedono il ricongiungimento familiare con l’altra moglie che si trova in Africa”. A volte l’ottengono, grazie anche ad “una certa magistratura che privilegia il culto del diritto formale ed è indifferente alle sue conseguenze concrete; e il paradosso di una classe politica sempre molto attenta a difendere la laicità dello Stato dalle ingerenze della Chiesa ma apparentemente ignara che l’Italia è già infiltrata dalla sharia islamica” (Magdi Allam sul Corriere della Sera).
Quella sharia che considera le donne come esseri inferiori; che non riconosce loro alcun diritto ma solo doveri; che le fanno dipendere totalmente da quel potere del “maschio” dal quale solo Gesù le ha tolte, parlando con loro e riconoscendone la parità: in nessun’altra religione il Battesimo e il rito matrimoniale sono identici per l’uomo e per la donna come nel Cristianesimo. Checché si creda, i valori religiosi creano nei popoli una tradizione culturale difficile da estinguere; non è un caso se, ancora oggi, esistono in molti Paesi la lapidazione dell’adultera, lo stupro legalizzato, la vendita delle minorenni, la clitoridectomia e l’infibulazione: ignobili soprusi dei quali si parla poco. Un’informazione scarsa, suggerita anche dall’attuale e diffuso clima di tolleranza, di tendenza a quel multiculturalismo che o nega le differenze tra Cristianesimo e le altre religioni, Islam in particolare, o le interpreta come ricchezza culturale. E che non si chiede mai perché nel matrimonio misto sia quasi sempre il Cristiano a doversi convertire. Giusto capire e rispettare il “diverso”, ma a patto di non tradire i propri valori.
Certo, non tutti i matrimoni misti vanno a rotoli; alcuni mariti, pur essendo musulmani, rimangono fedeli agli accordi presi, rispettano le mogli e consentono loro di partecipare all’educazione dei figli. Ma gli episodi negativi sono molto più numerosi di quanto non si creda: bambini portati via dai padri; mancato affidamento della prole, per sentenza, alle madri; mogli uccise; forme ripetute di violenza (torture; sequestri; imposizione del velo; ecc.). Ecco perché, come suggerisce mons. Crociata, segretario della Cei, tali unioni “non sono da incoraggiare”. Ed è consiglio dettato da razionalità, non da razzismo.
Egidio Todeschini