“Respinto. Umiliato. Oltraggiato. Dalla mia Africa, la mia madre Africa. Madre? Matrigna, e della peggior specie! Sono senza famiglia da 8 anni. Senza patria da quando ho 10 anni. Senza cittadinanza, senza diritti, senza rispetto per tutta la mia giovane vita. Chi è che, cosa vale, che prospettiva ha un rifugiato? Devo rimpiangere di non essere stato sterminato da bambino nel genocidio rwandese? Fuggirò mai dal mio destino?”
Mentre a forza veniva reimbarcato sul volo 814 dell’Ethiopian Airlines Zanzibar-Addis Abeba con destinazione finale Milano, via Roma, Albert era oppresso, angosciato, annichilito. In compagnia della giovane e fresca moglie italiana, Eleonora, si vedeva interrompere il suo viaggio di nozze dalla violenta ottusità di un burocrate dell’aeroporto africano e dalle spietate e incerte, elastiche, norme che regolano gli ingressi in Tanzania e che si prestano ad arbitrii senza appello. Soprattutto se applicate a un rifugiato di colore nero.
L’aria calda e il vento del mare aveva potuto sentirli appena nel tratto che dall’aereo lo portava a mettersi in coda per il controllo passaporti. Lì, Albert e Eleonora lasciavano ogni speranza di entrare nell’isola ardentemente desiderata. Altro che terra di sogno, altro che isola delle spezie e del mare cristallino. Lì, all’immigration control, sarebbe cominciato l’ennesimo incubo. E di Zanzibar ad Albert sarebbe rimasto impresso in mente il marchio storico di terra di reclutamento di schiavi.
Ecco, uno schiavo, una nullità si sentiva Albert, quando dopo due ore di stringenti e umilianti interrogatori, è stato costretto dalla polizia di frontiera a risalire sull’aereo che lo aveva portato lì dall’Italia.
Quell’espulsione, inaspettata e ingiusta, andava ad aggiungersi a tutte le altre ingiurie sofferte nella sua pur giovane vita.
Albert è un rwandese rifugiato politico in Kenya, ma attualmente risiede in Italia, dove è sposato con Eleonora e dove studia all’Università Statale di Milano.
Celebrato il matrimonio dopo 7, sì proprio 7 lunghissimi anni di lotte e incubi burocratici (documenti, certificati mancanti, ostacoli di ogni tipo al matrimonio) la giovane coppia (entrambi poco più che trentenni) sceglie Zanzibar come meta del viaggio di nozze a cavallo delle feste di Natale scorso.
Albert è in possesso di una lettera di protezione dell’Alto Commissariato della Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) e di un documento di viaggio che gli consente, in teoria, di entrare senza visto in tutti i Paesi dell’Africa Orientale.
Tuttavia, conoscendo quanto sia incerta la certezza delle regole in Africa, qualche mese prima del viaggio Albert e la moglie si premurano di interpellare l’ufficio consolare tanzaniano in Kenya (Tanzanian High Commission) per chiedere se l’ingresso a Zanzibar richieda il visto. Risposta: il visto non è necessario. Albert è un cittadino dell’East Africa. Albert e signora sono sereni.
Albert si sente rassicurato, anche perché l’anno precedente, quando ancora viveva in Kenya, per ben due (2) volte è entrato in Tanzania e l’ha attraversata in lungo e in largo senza ostacolo alcuno. I timbri di ingresso e uscita sul suo documento di viaggio parlano chiaro. E invece l’occhiuto responsabile dell’Ufficio Immigrazione osserva il passaporto e sentenzia: “Non puoi entrare a Zanzibar. Tu, che sei un rifugiato, una persona senza patria e senza identità, hai bisogno di un visto speciale”. La tracotanza e il disprezzo con cui rigetta il documento parlano più di ogni volgarità.
A nulla valgono le ragionevoli rimostranze, le suppliche, l’esibizione dei due precedenti timbri della Tanzania presenti nel documento di viaggio di Albert.
Inamovibile e sprezzante, il capo dell’immigration office diventa minaccioso: “Devi andartene, non devi farmi perdere altro tempo, altrimenti ti faccio arrestare. Tua moglie, italiana, può restare a Zanzibar. Tu no. Ora verrai preso e caricato sullo stesso aereo che ti ha portato qui. O preferisci finire in cella?”
Albert ed Eleonora non possono fare altro che subire, sconvolti e umiliati. Anche perché il volo per Addis Abeba rulla sulla pista. Non può attendere oltre. O salgono o diventano (Albert per lo meno) fuorilegge, con destinazione galera. E le prigioni africane, si sa, non sono proprio camere d’albergo a 5 stelle.
Per Albert il viaggio di ritorno è una tortura, perché deve rivivere la sua vita alla luce di questo nuovo doloroso capitolo. Nato in Rwanda da madre tutsi e padre hutu, per sfuggire ai massacri di cui sono rimasti vittima molti familiari, ancora bambino deve scappare con i fratelli e i genitori. La famiglia vaga per due anni tra colline e foreste di diversi paesi confinanti con il Rwanda, fino a quando non riesce a entrare in Kenya. Qui Albert cresce, studia e trova l’amore di una giovane cooperante italiana. Trasferitosi in Italia con lei dopo alcuni anni, per poter circolare deve fare affidamento sulla lettera di protezione dell’UNHCR, in attesa di diventare cittadino italiano. La nuova vita gli ha quasi fatto dimenticare di essere ancora un rifugiato, quindi un nessuno.
Il diniego brutale all’aeroporto di Zanzibar gli ricorda il suo status. L’esigenza di ottenere giustizia, riparazione di un torto si fa più forte che mai. Tornati in Italia, Albert ed Eleonora si mettono in contatto con l’UNHCR e i consolati tanzaniani in Kenya e in Italia e denunciano l’accaduto. Le scoperte che emergono dalle risposte sono amare e non fanno altro che rinnovare il dolore del rifiuto.
Intanto Albert apprende che il Tanzanian High Commission è stato estremamente superficiale: avrebbe dovuto dare un’informazione più corretta e mettere sull’avviso che un rifugiato avrebbe potuto trovare ostacoli all’ingresso nel Paese e che avrebbe dovuto richiedere un visto speciale.
Di fronte alle forti denunce di Albert ed Eleonora, le autorità tanzaniane hanno inoltre risposto che a loro non interessa nulla se Albert ha avuto informazioni errate dai loro stessi ufficiali, né tanto meno attribuiscono importanza al fatto che Albert fosse entrato già più volte in Tanzania senza visto.
Il peggio è però quello che si sentono dire – off the records – a proposito dell’Ufficio immigrazione di Zanzibar: l’isola, da sempre fiera di una cultura Swahili ormai anacronistica, è convinta di essere qualcosa di “diverso e superiore” dai paesi africani circostanti, e non vede assolutamente di buon occhio i rifugiati. E se questa mentalità è veicolata da un responsabile dell’ufficio immigrazione convinto di essere un intoccabile, ebbro del suo potere, come un dittatorello che può decidere come gli pare sulle vite degli altri, il cocktail diventa letale. “Siete stati saggi a prendere l’aereo di ritorno”. Ecco cosa è stato detto alla desolata e affranta coppia.
Zanzibar può attendere. Per Eleonora e Albert, però, non sarà mai più l’eden che profuma di spezie, dai colori abbacinanti, dalle lunghe spiagge deserte, dal mare favoloso e dalla stupefacente barriera corallina, come la vendono i dépliant turistici. Sarà d’ora in poi uno scrigno maleodorante di arroganza e di ingiustizia.
Arturo Rufus