Sette mesi in Kenya per un’adozione: “Lasciati soli dall’ambasciata italiana”

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nairboijpgSASSARI – Adottare un bambino in Kenya. Un sogno che Mariolina e Claudio, due medici sassaresi di 41 e 39 anni, hanno coltivato a lungo con una bella dose di pazienza e determinazione. Un sogno che, una volta realizzato, ha rischiato di essere rovinato a causa di un incidente burocratico con l’autorità che, almeno in teoria, avrebbe dovuto tutelare i loro diritti: l’ambasciata italiana a Nairobi. La loro storia inizia a maggio del 2011, quando dopo anni di attesa e di procedure pre-adottive arriva il via libera tanto atteso da parte dell’associazione Ai.Bi. I due si mettono in aspettativa lavorativa, fanno le valigie e si imbarcano con un aereo con destinazione Nairobi: nel loro cuore sanno che da quel viaggio non ritorneranno soli. E infatti nella capitale del Kenya incontrano un ometto di soli 18 mesi che, così come loro, cerca un volto in cui identificarsi.

Mariolina e Claudio lo abbracciano emozionati. Tutto va bene e scattano immediatamente le procedure di pre-adozione. La gioia per il dono ricevuto è palpabile, ma i due sassaresi sanno che non sarà facile”. Siamo stati oltre 7 mesi in Kenya per rispettare tutti i tempi necessari per l’adozione – racconta Claudio -. Non è andato storto niente dal punto di vista della procedura. Dopo una settimana dal primo incontro secondo il corso della legge kenyota, il bambino ci è stato dato in affidamento pre-adottivo per tre mesi. Ma poi abbiamo dovuto attendere ben tre udienze da parte del tribunale di Nairobi che si deve pronunciare diverse volte sulla stessa richiesta”. Finalmente il 25 novembre, dopo 7 mesi di attesa, il giudice emette la terza e ultima sentenza.

“Ci sembrava di aver finito la trafila burocratica – aggiunge Mariolina -. Anche perché la responsabile dell’associazione operante lì a Nairobi, che ci ha aiutato nell’adozione, nel frattempo aveva sentito i responsabili dell’ambasciata. Le avevano assicurato che potevamo partire senza problemi una volta ottenuta la sentenza con il lasciapassare del bambino”. Invece accade l’imprevedibile. “Quando siamo andati all’ambasciata italiana, la responsabile dell’ufficio visti, Matilde Carmona, ci ha detto perentoriamente che nessuno poteva partire senza il passaporto del bambino. Eppure, una coppia che era lì con noi nella nostra stessa situazione alla fine è partita senza troppi problemi. Con il visto dell’ambasciata ma senza il passaporto del bambino. Non c’era alcuna differenza tra noi e loro: anzi, l’unica differenza è che loro avevano i biglietti aerei già pronti. Eppure anche noi ci eravamo organizzati per partire. Avevamo già lasciato la casa in affitto ed eravamo pronti, con le valigie in mano. Vivere a Nairobi in abe068fc6b33430ca69521bb2e42c61fquel periodo non è stato facile facile – aggiunge Claudio -. Avevamo una guardia 24 ore su 24 appostata davanti alla nostra abitazione per motivi di sicurezza. Ad ogni angolo di strada potevamo incontrare un militare armato fino ai denti. Nel corso della nostra permanenza in Kenya ci avevamo fatto l’abitudine. Ma sulla nostra casella mail arrivavano continuamente mail di attenzione, proprio dall’ambasciata, in cui ci chiedevano di evitare luoghi affollati a causa del rischio di attentati. L’ansia cresceva di giorno in giorno. E in più, l’aspettativa lavorativa stava per scadere“.

“A quel punto ci è stato chiesto di produrre una documentazione riguardante il bambino corredata da fotografia. Ma poi abbiamo scoperto che in Kenya non esiste un documento rilasciato dall’autorità locale, con la foto del bambino – ricorda Claudio -. Serve solo il passaporto. Questa stranezza è stata rimarcata due volte all’ufficio visti, dove prima hanno ammesso l’errore: ‘Abbiamo sbagliato, ce ne assumiamo la responsabilità’, poi però non hanno fatto nulla di concreto per rimediare”. I due a quel punto non si fidano più e chiedono di parlare direttamente con l’ambasciatore italiano. Scoprono che è assente. In sua sostituzione, li riceve il primo segretario dell’ambasciata Alberto La Bella. Da subito Mariolina e Claudio mettono le carte in chiaro. “Siamo stati vittima di un’ingiustizia“, dicono all’alto funzionario. “Lui ci ha risposto dicendo che aspettare un mese in più non doveva essere un problema per noi e chenon potevamo farci nulla perché nel frattempo erano cambiate le direttive. Una risposta che non ci ha convinto affatto, visto che rispetto all’altra coppia, fatta partire con il lasciapassare, non c’era alcuna differenza di tempo, ma solo di trattamento”. Il funzionario li lascia ribadendo che l’unico requisito è il passaporto e che avrebbero fatto il possibile per farglielo ottenere in tempi brevi.

RenderImageLa loro storia finisce una settimana dopo, il 21 dicembre, quando ottengono il passaporto tanto atteso in tempi relativamente brevi grazie soltanto al prezioso aiuto dell’associazione Ai.Bi. che fa valere il suo legame con le autorità del Kenya. Il rientro in Italia va bene. Il bambino si adatta con rapidità ed entusiasmo ai nuovi ritmi di vita a Sassari e così Mariolina e Claudio sono pronti a dimenticare la vicenda del passaporto e archiviarla come un incidente. Ma c’è qualcosa che fa cambiare loro idea. “Una volta rientrati abbiamo continuato a tenerci in contatto con un’altra coppia presente a Nairobi insieme a noi. Siamo rimasti sbigottiti quando abbiamo scoperto con quale documento sono rientrati in Italia”. Passaporto? “Niente affatto: un semplice lasciapassare“. Ecco perché ora i due medici sassaresi ci tengono a raccontare e diffondere la loro storia. I due non ci tengono a passare come una coppia che aveva fretta di chiudere al più presto le pratiche. “Abbiamo aspettato per mesi, rispettando la legge e fidandoci di quanto detto in un primo momento dell’ambasciata all’associazione. Ma non si possono cambiare le regole a seconda delle persone. Ci siamo sentiti abbandonati. E non è giusto”. Anche perché, si potrebbe aggiungere, quello delle adozioni internazionali è un meccanismo già abbastanza complicato e burocratico. Ed è un paradosso che gli ostacoli più grandi arrivino da parte delle autorità italiane piuttosto che da quelle dei Paesi di provenienza dei bambini.

(Da SassariNews, 6 marzo 2012)

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